24/01/14

Acciaio o Ghisa?!


Acciaio è il primo romanzo della giovane scrittrice  Silvia Avallone, da cui è stato tratto anche un film. Bene, ora che avete preso le dovute informazioni dai link, parliamo del libro, in attesa di vedere il film.
L’acciaio non si trova in natura, è una lega e basta cambiare le percentuali dei composti per ritrovarsi al suo posto la ghisa, ovvero ferraccio, di minor qualità.
Gli elementi che, a parer mio, rendono ghisa questo romanzo sono: la banalità, la monotonia, la piattezza dei personaggi, un registro linguistico privo di sfumatura, un’accozzaglia di eventi circostanziali e generalizzazioni varie ed eventuali.
Inizio la lettura del libro con tutte le migliori intenzioni. Mi incuriosiva perché ne è stato tratto un film e perché era in versione e-book gratuita su Amazon.
La vicenda, per chi non lo sapesse o non avesse usato i link sopra indicati, si svolge in una Piombino di inizio millennio tra la spiaggia, la fabbrica di acciaio, la vita periferica degli operai che vi lavorano e dell’intero indotto: bar, scuole, discoteche, malavita, etc.
Tutto fila liscio, immerso nella lettura, fino a quando, all’improvviso e inaspettatamente, non succede proprio nulla. O meglio: succede il prevedibile.
Le pagine, monotone e ripetitive, si fanno leggere senza sforzo e l’autrice ci presenta un numero di personaggi superiore al necessario.
Tra quelli primari e secondari non trovo molto differenza: privi di spessore, senza profondità, asettici.
Le protagoniste sono due tredicenni che vivono il passaggio dall’età infantile a quella adolescenziale.
Un tema interessante, ma già dopo le prime battute sono vittima dell’ovvio che, purtroppo, mi accompagnerà fino alla fine.
Intorno a loro si muovono persone e vicende che si incontrano e si intrecciano, molto spesso senza apportare nulla di significativo ai fini del racconto.
Abbiamo, quindi: un padre-padrone operaio; una madre ovviamente di origini meridionali, segregata tra la cucina e il tinello; un’altra madre, la cittadina emancipata, lavoratrice e combattiva; un secondo padre-padrone, operaio licenziato col vizietto del guadagno facile; le ragazzine sfigate, cicciottelle, secchione e invidiose; giovani operai pasticcomani discotecari, che vivono alla giornata; il bello e dannato che fa la sua apparizione, assumendo il ruolo di defloratore; ragazze madri; spogliarelliste; e via scrivendo.
Così come non manca la scenetta sexy-pedo-porno-lesbo con tanto di guardone onanista, non manca nemmeno l’elemento suspense: un paio di incidenti con tragici risvolti, giri loschi e traffici strani, latitanti che vanno e vengono.
Non mancano i riferimenti politici: Silvio, l’11 settembre visto al bar, il mondo che cambia,… vogliamo parlare dell’abusato cliché dell’ambiente scolastico? Ma anche no, lo leggete da voi.
Gli eventi non vengono sviluppati: rimangono piatti, nessuna evoluzione,  tante microcronache di fatti che sono stati uniti sapientemente.
Un altro elemento appiattito e privato di sfumature è il linguaggio. Siamo a Piombino, in provincia di Livorno, tra le città che hanno una parlata e un vernacolo molto colorito: modi di dire, slang, cadenze particolari.
Nel libro non troviamo traccia di livornesità: né il famoso “Boia dé”, né un “m’importa ‘na sega”  e al posto di “troia” un “ber tegame” o “farda” ci poteva stare. (per approfondire)
Un libro, in definitiva, non entusiasmante, il cui tema centrale (l’amicizia? La difficile vita di periferia? Il conflitto generazionale?) mi sfugge: nel mare magnum degli  argomenti inseriti si fa fatica a comprendere dove si vuole andare a parare.

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